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C’eravamo tanto amati
“Tu quoque, Gianfranco, Fini mi!”
- di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 8, ottobre 2009
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Ma cosa sta accadendo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi? Tra i due il clima degenera di giorno in giorno e la gente non riesce a comprendere il perché. Dobbiamo forse pensare che dopo soli sei mesi di matrimonio, gli sposi siano già sul punto di un eventuale divorzio? Che cosa ha portato i due amanti alla potenziale rottura? Già cinque mesi fa, sul numero di maggio di Profili Italia, nell’articolo “Le mille anime del Popolo della libertà” mi domandavo quanto sarebbe durato il sodalizio tra Forza Italia e Alleanza nazionale, anime tanto diverse e in competizione tra loro, dove ognuno dei due leader avrebbe puntato ad accrescere il proprio potere e spazio all’interno della nuova abitazione, creando inevitabilmente disagio e turbamento all’altro. Sempre in quell’articolo ricordavo al Presidente della Camera che in casa Pdl a portare i pantaloni è Silvio, il quale difficilmente è disposto ad accettare politiche diametralmente opposte alle sue. Quello che mi stupisce in Gianfranco Fini è che rimprovera a Silvio Berlusconi e al Pdl quello che gli ex vertici e attivisti di An hanno sempre rimproverato a lui: la libertà di espressione e il confronto interno al partito. Che Gianfranco Fini non sia più quello di una volta, ormai se ne sono accorti proprio tutti, il suo dire e il suo modo di essere sono tipici di un uomo di sinistra, non di un politico di destra. Quello che lui va sostenendo non è detto che sia sbagliato, è sbagliata la posizione del palco da cui declama il suo pensiero. Chi conosce bene la terza carica dello Stato, sa che ama esplorare i fondali marini per scoprire le meraviglie che chi non si tuffa non vedrà mai. I pochi che lo conoscono ancora meglio sanno invece che la sua vera passione non è l’immersione, ma l’arrampicata, salire sempre più su, nella scalata che porta alla vetta della politica, ovvero alla massima carica dello Stato. Lo sputtanamento che ha coinvolto il Presidente del Consiglio ad opera di Patrizia D’Addario e altre escort, ha precluso a Silvio l’ascesa al Quirinale e chi meglio di Fini potrebbe approfittare e aspirare a quel posto? Sempre sul numero di maggio di Profi li Italia, nell’articolo “Il compagno Fini” mi domandavo stupito: come mai il Presidente della Camera ha fatto suoi principi e pensieri della sinistra? Le idee e gli obiettivi che Fini espone non sono quelli di una destra liberale e occidentale, ma modelli culturali di sinistra. Per caso quest’atteggiamento non è frutto di una strategia politica del tutto opportunistica mirante ad apparire gradito, specialmente all’opposizione, come leader istituzionale, e di conseguenza legittimato a scalare il Quirinale al posto di Silvio? Cinque mesi fa avevamo un dubbio in proposito, oggi l’ipotesi non è più da escludere. A detta di molti, altro motivo di nervosismo “finiano” consisterebbe nel fatto che gran parte dell’elettorato di An si è disamorata del suo leader e dei suoi colonnelli e pertanto alle prossime elezioni regionali, mentre l’altro alleato del Pdl (la Lega) crescerebbe notevolmente, gli ex An sono destinati a una sconfi tta clamorosa, proprio per le recenti prese di posizione di Fini, che col suo dissenso cerca ora di arginare l’espandersi della Lega e di sminuire il suo condizionamento politico all’interno del Pdl. Terza e ultima ipotesi di questo momento di alta tensione: il Presidente della Camera si è reso conto che il Paese è maturo per trattare temi importanti come immigrazione, globalizzazione, testamento biologico, scala dei valori, e ha compreso che il suo pensiero oltre a essere diverso, non è e non sarà condiviso dai militanti di destra. Non è da escludere pertanto che Gianfranco Fini inizi ad esplorare aree politiche al di fuori del Pdl (aree dell’opposizione incluse) per vedere se sia possibile fare politica in modo diverso dal bipartitismo e magari senza Berlusconi. Qualunque sia il motivo per cui Gianfranco ha reso pubblico il suo malcontento, stupisce. Ma nessuno stupore ci sarebbe nel sentire Silvio gridare dal suo pulpito: “Tu quoque, Gianfranco, Fini mi!”.
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La "nostra cara" Fiat
Quanti regali dagli Italiani!
- di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 5, giugno 2009
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Negli ultimi cento anni, per salvare il padrone della Fiat dalle varie crisi, noi italiani abbiamo pagato con le imposizioni fiscali un milione di miliardi di lire la pessima gestione della casa automobilistica torinese, che quando produceva utili, era abilissima a farli sparire, per poi vederli rispuntare in qualche paradiso fi scale nella cassaforte di famiglia, mentre nei periodi di difficoltà a pagare siamo sempre stati noi contribuenti che, per riconoscenza, abbiamo ricevuto in cambio automobili di qualità scadente a prezzi superiori alla media di mercato. Pertanto, in tutti questi anni la famiglia Agnelli non ha fatto altro che “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”. Ma com’è riuscita così bene in questo? Con il più semplice dei ricatti, ovviamente! O mi dai tot lire o ti licenzio 6.000 operai. Per evitare che decine di migliaia di lavoratori, con relative famiglie, finissero in mezzo a una strada, ci siamo svenati, tra casse integrazioni ordinarie e speciali, incentivi e ammortizzatori sociali di vario genere, riempiendo sempre più lo scrigno dell’azionista di riferimento quando questo era vuoto. Mentre il popolo italiano condivideva i debiti della Fiat, gli Agnelli hanno sempre trattenuto gli utili e questo è accaduto in ogni epoca storica. Non è mai successo che lo Stato non abbia aiutato la casa automobilistica torinese in diffi coltà: lo fecero i governi giolittiani, lo fece il Duce, lo fecero i governi DC e PSI, lo ha fatto il recente governo di sinistra, lo sta facendo il governo Berlusconi. A proposito dei regali alla Fiat, quello più scandaloso è stato sicuramente la cessione dell’Alfa Romeo da parte dell’IRI, presieduta da Romano Prodi, nonostante ci fosse un’offerta di gran lunga superiore della casa americana Ford; l’Alfa Romeo venne quasi regalata alla famiglia Agnelli, con un’enorme perdita per le casse dello Stato e un enorme favore per l’azienda torinese, che rimase l’unica concorrente in Italia; o la più recente mobilità concessa al Lingotto qualche anno fa, che a spese del contribuenti pagò più di tremila esuberi Fiat per una durata di ben 7 anni! Da quel momento sino al giorno del loro pensionamento. Poi ci sono i miliardi elargiti sotto forma di incentivi alla rottamazione delle “vecchie” automobili, che grazie a leggi su misura obbligano i più ostinati o i meno ricchi a cambiare le loro auto, anche se queste sono perfettamente funzionanti, perché la normativa vieta loro di circolare, costringendo a nuovi debiti i cittadini economicamente più deboli, già sommersi da ratei di ogni genere. Alcuni sindacati chiedono che lo Stato entri nell’azionariato Fiat, scambiando gli aiuti di Stato con Azioni Fiat, mettendo così fi ne a questi omaggi senza ritorno e senza fine. Sindacati e lavoratori da molto tempo si stanno domandando: ma perché in Italia si aiutano a suon di miliardi sempre le solite aziende, e non si sostengono mai le Piccole e Medie Imprese, la spina dorsale della nostra economia reale, che quando le cose non vanno bene, pagano di tasca propria e se i soldi non bastano, sono costrette al fallimento? Mentre molti lavoratori del lingotto tremano al solo pensiero che altri stabilimenti Fiat possano chiudere, perdendo così il proprio posto di lavoro, ovvero il sostentamento per se stessi e per i propri figli, Marella Caracciolo e Margherita Agnelli, moglie e fi glia dell’avvocato Gianni Agnelli, stanno ferocemente combattendo una battaglia legale che non ha nulla a che vedere con gli stabilimenti, gli operai, la produzione o l’azienda, ma che riguarda invece il tesoro nascosto di famiglia. Margherita, infatti, sostiene che con l’Opa Exor del 1998, i soci anonimi di Exor (Gianni Agnelli?) abbiano nascosto all’estero, tra Svizzera, Liechtenstein, Lussemburgo, Usa e paradisi fi scali dei Caraibi, la bellezza di1,4 miliardi di euro, ovvero circa 2.800 miliardi di vecchie lire. Nella prossima udienza del processo civile fissata per il 30 giugno a Torino, forse madre e figlia avranno le idee più chiare su quanto noi italiani siamo stati costretti a regalare alla loro famiglia, mentre sull'altra sponda, i poveri operai, una cosa è certa: almeno due stabilimenti chiuderanno i battenti. E allora, Silvio, dal momento che - tu pure lo sostieni - la legge del libero mercato recita che se non sei un imprenditore capace, chiudi bottega e lasci il posto a chi è più bravo, noi ci domandiamo: perché continuiamo a dargli tanti soldi?
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Capitalismo oggi
Si spera in un domani migliore
- di Guerrino Iacopini -
Pubblicato su Profili Italia anno I I numero 2, marzo 2009
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Dal 1848, cioè da quando fu pubblicato a Londra il “Manifesto del partito comunista” di Karl Marx, il capitalismo ha superato una decina di crisi, dal crack del 1929 al marasma attuale. Ogni volta si è detto che era in prossimità della sua fine e che sarebbe stato sostituito da un altro sistema economico. Non solo questo non si è verificato, ma si è dimostrato che le crisi sono servite a modernizzarlo e a fargli acquisire nuovi significati secondo l’epoca storica. La prova sta nel fatto che il capitalismo di oggi è privo sia della borghesia sia del proletariato, cioè delle due classi indispensabili all’idea marxista, che avrebbero dovuto portare alla rivoluzione e di conseguenza al comunismo. Questo superamento, però, ha fatto sì che il capitalismo attuale producesse un liberismo senza regole, che sta causando problemi in tutto il mondo, sia in quello industrializzato sia nei Paesi in via di sviluppo, minando la sicurezza e la democrazia di gran parte del Pianeta. L’anarchia imperante nel mondo dell’economia e della finanza ha stravolto lo scopo originale di questo sistema economico, che era quello di arricchire in modo oggettivo i popoli, e aumentare di conseguenza la loro felicità. Quando abbiamo sostituito la “sacralità dell’uomo” con il “Dio denaro” e costretto la nostra vita alla ricerca forzata della “Ricchezza”, abbiamo assistito all’irresponsabilità del capitale, che ha cancellato l’etica e la morale dal mercato, portando ingiustizia nella distribuzione del benessere. La sperequazione ha creato a sua volta immensa ricchezza a pochi e infinita povertà a molti. Consapevoli che il capitalismo e il mercato rimangono al momento i soli sistemi per produrre ricchezza, dal momento che gli altri sono miseramente falliti o si sono convertiti a esso, occorre cambiare il sistema dominante e decadente che sta distruggendo le principali economie occidentali. La crisi contagia proprio quei sistemi finanziari che non hanno più alcuna attinenza con l’economia reale, mentre tutto ciò che è orientato allo sviluppo e non alla massimizzazione dei profitti, è completamente immune dall’attuale cataclisma finanziario. Uscire dalla logica del profitto può ricondurci sulla giusta via. L’ha dimostrato Muhammad Yunus, docente bengalese di economia, fondatore della Grameen Bank, “la banca dei poveri”, che in 26 anni di attività ha erogato prestiti per circa 7,5 miliardi di dollari ai suoi 8 milioni di clienti, i più poveri al mondo. Quello che Yunus è riuscito a fare si dimostra essere un valido modello creditizio di lotta alla povertà anche nelle economie a forte sviluppo. Il social business lanciato dal professore indiano è l’esempio che la micro finanza non può prescindere da una grande etica, che riporti l’uomo al centro di ogni cosa, evitando la sua esclusione sia finanziaria che sociale dalla vita di ogni giorno, aumentando così la sua felicità e realizzando al contempo lo scopo del capitalismo moderno. Se dall’altra parte del mondo esistono iniziative etiche lodevoli, a casa nostra negli ultimi anni il sistema finanziario è stato scosso da numerosi scandali: i bond argentini, il Banco Ambrosiano, Cirio, Parmalat fino ad arrivare all’Alitalia. Tanti terremoti che hanno gettato sul lastrico decine di migliaia di famiglie, senza mai vedere nessuno pagare per questo. Ogni volta è stato messo sotto accusa il sistema bancario, che tranquillamente se ne è disinteressato. La crisi dei mercati finanziari spinge a pensare che qualcosa non funziona più. Molti sostengono che il sistema è malato e i più preoccupati sono i risparmiatori, i consumatori e i cittadini, che si chiedono se regole e valori esistano ancora e se ci sono speranze per il futuro. Un futuro che non può più prescindere da un’etica della finanza e dell’economia. Perché o si va verso un capitalismo umano o si va verso il declino dell’intero Pianeta.
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Il Popolo che non c’è
Istantanea di una vita da senzatetto
- di Guerrino Iacopini -
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 3, aprile 2009
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In Francia li chiamano ‘clochard’, in America ‘homeless’, da noi ‘barboni’. Sono quel popolo d’invisibili che ha fatto della strada la propria casa. In Italia sono centomila, nel resto d’Europa quattro milioni, ma le organizzazioni di assistenza affermano che sono in costante crescita. Ma chi rappresentano questi personaggi di cui nessuno si accorge? La metà sono stranieri venuti in Italia in cerca di un futuro migliore, l’altra metà sono connazionali che secondo l’ISTAT costituiscono la parte più debole di quei 7 milioni e mezzo di “poveri relativi”, ovvero coloro che hanno meno della metà del reddito di sopravvivenza. Sono persone fra i 40-50 anni che hanno perso il lavoro e non ne trovano un altro; pensionati con redditi insufficienti, ex detenuti che non sono riusciti a reinserirsi nella società, tossicodipendenti, donne senza lavoro abbandonate dai propri compagni o persone malate di mente. Poveri diavoli che per un motivo o per un altro vengono emarginati dalla collettività, privati di una scelta di vita. Chi pensa che nel ventunesimo secolo esseri umani scelgano un’esistenza da barbone per romanticismo, sbaglia alla grande perché nessuno decide di vivere malamente. C’è sempre un motivo che porta ad abitare la strada: le tasche vuote oppure perché in quel momento non si è mentalmente lucidi. C’è chi subisce la situazione e allora affoga i dispiaceri e sé stesso nell’alcol, chi invece amaramente l’accetta e inizia a vivere da invisibile. Un’esistenza che non merita di essere vissuta. L’estrema miseria e l’immensa solitudine spesso trascinano l’individuo verso il peggiore degrado, proprio come accaduto a Roma dove all’interno del Verano, il cimitero monumentale della capitale, i morti coabitavano con i vivi e nessuno se ne era accorto. Almeno fi no a quando il Messaggero non l’ha denunciato. Altri invece, anche se privati di tutto dalla vita, riescono a conservare gelosamente almeno una cosa: la dignità! Che per molti è non dover chiedere niente a nessuno, tanto da far si che sia più grande e più bella di quella misera pietà che sempre meno gente è disposta a dare. Il disgraziato ritratto nella foto, quando mi sono inchinato per donargli qualche spicciolo, mi ha detto: grazie, ma non accetto soldi! Ma come è possibile che quando tutte le persone del mondo corrono dietro al “Dio denaro”, anche quando non ne hanno bisogno, chi non ha nulla non accetti un’elemosina? In quel momento ero con la mia amica Patrizia, guardavo i suoi occhi marroni che ti scavano l’anima, ma il mio pensiero era concentrato su quel barbone steso in terra senza pronunciare parola, sul suo rifiuto dell’obolo. Mi ha fatto chiaramente capire che per lui la cosa principale non sono i soldi bensì la considerazione! Un uomo che invece di fare la spesa al supermercato cerca il suo pasto nei bidoni della spazzatura, che invece d’indossare un abito Valentino si copre di stracci puzzolenti, che passa la notte al gelo dentro ricoveri di fortuna costruiti col cartone, davanti alla stazione Termini è lì in terra senza lamentarsi. Perché, nonostante tutto, lui sa di essere una persona e come tale merita rispetto! Avrei voluto dire a Patrizia che solo in quel momento ho capito veramente quanto è importante per loro (e per tutti noi) avere una casa e quanto sia facile perderla! Alla mia destra lei, bella donna, in gamba, piena di charme, continua a parlare con me, lamentandosi di quello che la vita non le offre più. Alla mia sinistra lui, brutto, sporco, disteso su un cartone, che mi guarda sorridente. In mezzo a noi la gente, che continua a passare, incurante di tutto e… senza vedere niente.
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Figli di un Dio minore
Disabili, lavoro e crisi economica
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 7, settembre 2009
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Ogni volta che incontro un bambino/a o ragazzo/a down o diversamente abile, esplode dentro di me una bomba atomica d’amore e sento che la cosa è reciproca. Non so perché mi accada, ma questo meraviglioso sentimento l’ho sempre posseduto e, man mano che io crescevo, lui cresceva in me. Per questo motivo, oltre che per giustizia, non potevo non affrontare l’infelice problema della mancata applicazione della legge sull’assunzione dei disabili. La normativa, infatti, obbliga le aziende che abbiano tra 15 e 35 dipendenti ad assumere un disabile, due fino a 50 dipendenti e per le aziende più grandi prevede che sia loro riservato il 7 per cento dei posti di lavoro. I mancati controlli da parte degli organi competenti consentono alle imprese che non hanno nessuna intenzione di assumere i portatori di handicap di farla franca per anni, e se scoperte, la sanzione è talmente meschina (51,65 euro al giorno) che conviene pagare la multa invece di assumerli. Le aziende, inoltre, versando un contributo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili, sono comunque esonerate dall’assumerli. In questo modo, il lavoro per i portatori di handicap è praticamente un’illusione. E pensare che invece sarebbe la base per l’integrazione sociale di quelle persone che nella nostra società sono le più svantaggiate e le più bisognose di aiuto. Il diritto al lavoro non può essere separato dagli altri diritti della persona disabile, che più di ogni altro essere umano, con esso può raggiungere quell’autostima che è la strada verso la realizzazione di sé stessi e dei propri desideri, oltre al superamento delle proprie necessità. L’inserimento nel mondo del lavoro per un disabile è vita: senza rapporti sociali, senza scambi e senza confronti con il resto della società, si sentono inutili e, privati persino dell’idea di poter materializzare un tenero amore, sono spinti a chiudersi in se stessi per paura di essere derisi dagli “altri”, quelli che dalla vita hanno avuto tutto e il meglio di tutto. Ecco che allora spendono in modo abulico i loro giorni in attesa di un lavoro che chissà se arriverà mai. Grazie alla crisi economica, il Governo, per correre in soccorso alle aziende, ha consentito loro di accedere alla cassa integrazione, alla mobilità, alla riduzione dell’orario di lavoro e ha perfi no sospeso l’obbligo di assunzione dei diversamente abili, com’era previsto dalla legge del 1999. Quest’altro regalo alle aziende, a danno della categoria più debole della nostra società, è vero che è stato fatto dalla destra, ma bisogna ammettere che quelli che una volta si definivano i paladini del sociale, in altre parole la nostra sinistra, se ne sono infischiati altamente. Per non parlare poi del Centro, che queste problematiche oramai non le prende più neanche in considerazione. La conseguenza di questo menefreghismo è che ci sono migliaia di posti riservati ai portatori di handicap non occupati e centinaia di migliaia di lavoratori disabili perennemente iscritti alle liste di collocamento speciali che continuano a illudersi. Per un disabile il lavoro non è tanto uno stipendio alla fi ne del mese, quanto poter gridare al mondo intero: “Nonostante il mio svantaggio, lavoro e produco come il resto dell’umanità, perciò ho diritto alla stessa considerazione”. Tra le mie tante amicizie, ci sono due sorelle, Noemi e Sara, ambedue affette da una malattia degenerativa che causa loro la perdita dell’equilibrio. La sera quando torno stanco morto dal lavoro, prima di arrivare al portone le vedo sedute su una panchina fuori dal locale gestito dalla loro mamma e quando i nostri occhi s’incrociano, vedo il loro sorriso a metri e metri di distanza. Non riesco a passare dritto, perché i nostri spiriti hanno bisogno di scambiare almeno due chiacchiere. Proprio in una delle nostre conversazioni una volta Noemi mi ha detto: “Guerrino, non parlo con nessuno per paura di essere derisa riguardo la mia condizione. Ho quasi 24 anni e questo mio timore mi preclude l’avere rapporti con la gente, e di conseguenza sperare nell’amore. E pensare che invece se un qualcuno mi sposasse, questo farebbe un grande affare!” Questa affermazione rappresenta appunto la sofferenza e il distacco tra le parti, che acuisce quella discriminazione sociale ancora granitica nei confronti della disabilità. Con persone serie, corrette e oneste come Noemi, a guadagnarci non sarebbe solo il fi danzato ma l’intera società… Allora perché non fare qualche cosa?
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