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Wall Street
Rispuntano i predatori, l’immoralità continua, tutto torna come prima
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 9, novembre 2009
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I mercati americani sono di nuovo sommersi dai derivati (swap, futures, IRS, options, hedging, trading, prestiti d’auto subprime, carte di credito subprime e mutui subprime), in altre parole quegli strumenti privi di un valore di mercato usati dalla finanza creativa e ritenuti la principale causa della crisi del credito nonché la rovina di colossi come Lehman Brothers, che con la sua bancarotta da 613 miliardi di dollari ha causato il più grande fallimento della storia e Aig, la più grande compagnia privata assicurativa che ha accusato 40 miliardi di dollari di perdite per le garanzie che ha sottoscritto sui derivati dai mutui subprime, mutui concessi a soggetti ad altissimo rischio d’insolvenza, poiché in passato già inadempienti, già pignorati o già falliti, oppure privi di garanzie e di capacità di restituzione nel presente. Proprio per questi motivi, i prestiti subprime hanno tipicamente condizioni meno favorevoli delle altre tipologie di credito. Queste tipicità fanno sì che i debitori paghino parcelle, tassi d’interesse e premi molto più elevati dei clienti normali, ma il rischio di non vedere rimborsate le rate del debito è altissimo, anzi quasi certo. A usare questi strumenti sono predatori finanziari che immettono miliardi di dollari di “aria fritta” senza controvalore nei mercati internazionali per realizzare profitti enormi; e se la speculazione va male - e inevitabilmente prima o poi ci andrà - a pagarne le conseguenze, come al solito, saranno i risparmiatori sprovveduti. Dopo appena un anno e nel bel mezzo della peggiore crisi economica mondiale, questi prodotti finanziari atipici sono di nuovo comparsi a Wall Street, nel tempio del “Dio denaro”, insieme a vecchi e nuovi speculatori senza scrupoli. Il Tesoro americano sostiene che le banche commerciali degli Stati Uniti, in modo particolare JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America e Citibank, hanno incassato 5,2 miliardi di dollari dalla compravendita di derivati nel secondo trimestre del 2009, pari a un aumento del 225% rispetto al 2008. Questi enormi ricavi sono il frutto di prodotti derivati per un valore di 555 miliardi di dollari, il 37% in più del 2008. Nonostante il mondo intero abbia condannato sia i prodotti finanziari atipi ci sia chi con essi ha compiuto guadagni scandalosi, causando la rovina di milioni di persone in tutto il mondo, il malcostume continua. La più grave crisi dopo il ’29 e le logiche finanziarie immorali e pericolose che l’hanno innescata sembrano non avere insegnato niente: i “predatori” sono tornati a Wall Street più numerosi e più tenaci di prima, pronti a causare un altro disastro economico mondiale. Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, subito dopo il crack della finanza internazionale ha tentato di far approvare dal Congresso un inasprimento delle norme nei confronti dei predatori finanziari ed eventuali regole a tutela dei consumatori, ma è stato battuto e tutto è finito lì. Nel resto del mondo invece a nessuno è venuto in mente (o non lo si è voluto) di prendere in considerazione provvedimenti legislativi riferiti a speculatori senza scrupoli e istituti di credito che per le loro scelleratezze finanziarie potrebbero causare la rovina non solo di sprovveduti investitori o di una nazione tutta, ma dell’intero pianeta, com’è appena accaduto. La spregiudicatezza della finanza creativa con la quale loschi profittatori compiono pratiche d’intermediazione finanziaria tese alla vendita di strumenti privi di valore di mercato e dove istituti finanziari cedono a terzi crediti inesigibili per realizzare guadagni certi e coprire perdite precedenti, devono essere sanzionate severamente sia civilmente sia penalmente dal diritto internazionale. Non si dovranno più vedere milioni di persone rovinate da obbligazioni Cirio, Parmalat, mutui subprime e da quell’immoralità finanziaria che invece di reggersi su regole, etica e principi che aiutino il genere umano, lo gettano sul lastrico per concentrare la ricchezza nelle mani di pochi invece di distribuirla in quella di molti, impedendo di fatto la riduzione della povertà e l’offerta di un pezzo di pane a quel miliardo di persone che ogni anno nel mondo muore di fame.
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Lo spostamento della ricchezza
Italiani sempre più poveri. Perché?
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 9, novembre 2009
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Chi negli ultimi anni ha osservato con attenzione l’andamento dell’economia italiana, non ha potuto fare a meno di notare lo spostamento della ricchezza da alcune categorie sociali ad altre. E’ sotto gli occhi di tutti che alcune classi sociali si siano realmente impoverite, poiché il loro potere di acquisto, cioè la loro ricchezza, è notevolmente diminuito, riuscendo a stento ad arrivare alla successiva busta paga. Stiamo parlando delle categorie a reddito fisso: gli operai, i lavoratori dipendenti e i pensionati. Il costo della vita aumenta, i salari, gli stipendi, e le pensioni no. E allora i cittadini non riescono a far fronte ai bisogni delle proprie famiglie. Quello più preoccupa è che questi cittadini non solo non protestano, ma nemmeno pretendono dai politici quelle leggi vitali alla loro dignità e sopravvivenza. Allora ci si domanda: <<Come mai accade questo?>>, e la risposta è scontata. Il popolo non ha più fiducia nelle istituzioni, nella politica e nei sindacati. Si sente abbandonato e tradito da tutti, sa di essere rimasto solo ad affrontare problemi tanto grandi, che niente lasciava presagire gli sarebbero capitati. Tutto ciò procura enormi difficoltà e una grande sofferenza ad andare avanti, mortifica gli animi e cancella ogni speranza di un futuro migliore. Con l’introduzione dell’euro le famiglie italiane hanno iniziato a spendere i loro risparmi e a percepire che il proprio reddito era diventato inferiore a quello “necessario” per vivere. Con l’avvento della crisi economica quelle stesse famiglie si sono trovate con i risparmi quasi a secco e gli stipendi falcidiati; lo spostamento della ricchezza dal lavoro ai redditi da capitale ha prodotto l’impoverimento del ceto medio e l’aumento delle disuguaglianze. Se da un lato è evidente che il tenore di vita di gran parte della popolazione - i lavoratori dipendenti e i pensionati - sta continuamente regredendo, dall’altro lato si nota ugualmente l’incoerenza nel reddito dei lavoratori autonomi, quello dichiarato da molti professionisti, commercianti e piccoli imprenditori, che proprio non si addice al loro alto tenore di vita. Dunque, una classe media in crisi e demoralizzata nelle sue attese di miglioramento, perché penalizzata dall’erosione del reddito, vede davanti a sé gruppi sociali che, sfruttando rendite e posizioni monopolistiche, si rendono immuni agli effetti negativi della crisi e, oltre a vivere meglio, hanno anche concrete speranze per il loro futuro e quello dei propri fi gli. L’impoverimento del ceto medio, però, non dipende solo da questi due elementi. Le ragioni principali della nostra crisi risiedono soprattutto nella ridotta capacità di produrre ricchezza, derivante da una serie di fattori: mancata innovazione delle imprese e scarsa competitività delle stesse, insufficienza o assenza d’infrastrutture e servizi pubblici, scarsa produttività del lavoro e mancanza di concorrenza in numerosi settori “protetti”. E aggiungerei: incapacità politica nel risolvere i problemi industriali e occupazionali, politiche economiche scellerate e fiumi di soldi regalati a pseudo imprenditori e a mafi osi di ogni specie. Infi ne, è bene evidenziare anche la debole, o quasi inesistente, azione dei sindacati nei rinnovi contrattuali. La maggior parte delle organizzazioni sindacali ha preferito porsi spesso come interlocutore politico e ha rinunciato a richieste salariali più forti, in cambio da Governo e imprese di riforme che li privassero dei privilegi ottenuti “nel mercato delle vacche”. Quanti sindacalisti hanno ottenuto da questo mercato incarichi politici o sono stati nominati onorevoli per aver fatto da cinghia di trasmissione con alcuni movimenti politici, invece di far propri gli interessi dei lavoratori? Quando i lavoratori hanno chiesto remunerazioni più eque (i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa) e maggiore giustizia sociale, il potere politico non li ha ascoltati, perché occupato a reperire risorse economiche per banche, assicurazioni, imprenditori e amici degli amici. Soldi sprecati che se dirottati sugli operai, sui pensionati e sui lavoratori dipendenti, rimetterebbero in moto l’economia nazionale e, oltre a produrre nuovamente ricchezza, frenerebbero quelle odiose e ingiuste diseguaglianze che invece crescono di giorno in giorno.
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Fuga dalla miseria
Quando gli immigrati eravamo noi
-– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 8, ottobre 2009
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Migrare verso un altro Paese è di solito una fuga da qualcosa di spiacevole. C’è chi scappa dalla guerra e dalla dittatura, chi dalla carestia e dalla miseria, chi da una vita impossibile. Lasciare la propria terra e i propri affetti significa sperare in una nuova esistenza, dove non si possa più soffrire la fame. La speranza di arrivare in un nuovo mondo, dove tutti sono liberi e uguali, dove è concessa anche a un povero l’opportunità di andare avanti nella vita, spinge milioni di disperati a spostarsi in ogni parte del pianeta. Prima di albanesi, romeni, cinesi, africani, indiani, kosovari furono i nostri nonni a lasciare il Bel Paese, per cercare fortuna in ogni angolo della Terra. In stazioni ferroviarie o porti che, molto probabilmente, non avrebbero più rivisto, senza conoscere una sola parola della lingua straniera con la quale avrebbero dovuto confrontarsi, stringevano valige di cartone piene di niente. Un viaggio della speranza che per molti non ha rappresentato l’Eldorado: sono partiti poveri e giunti a destinazione, invece dell’agognata ricchezza, hanno incontrato difficoltà d’inserimento che li hanno costretti a un’esistenza ancora più disgraziata di quella di partenza. In una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, datata Ottobre 1912, si legge testualmente: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro, affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano, purché le famiglie rimangano unite, e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”. Osservando attentamente com’erano descritti i nostri antenati emigranti, ci si accorge che non c’è differenza con i migranti che attualmente arrivano sulle nostre coste. Le facce di chi sbarca oggi sono identiche a quelle di chi sbarcava allora, come identiche sono le abitazioni, le difficoltà d’integrazione, i lavori svolti, il trattamento subito. Il secolo d’immigrazione italiana all’estero (1876-1976), per le sue enormi dimensioni, è considerato il più grande esodo della storia moderna. In questi cento anni sono stati censiti ben 25 milioni e 800 mila emigranti italiani. Dal 1905 al 1976 ne sono rientrati 8 milioni e mezzo, circa uno su tre di quelli partiti. Possiamo tranquillamente affermare che al mondo esistono due Italie: una sulla Madre Terra, composta da 57 milioni di persone e l’altra sparsa nel resto del mondo, composta da 60 milioni d’italiani e figli d’italiani. I nostri emigranti all’estero hanno dovuto subire per oltre un secolo intolleranze, pregiudizi, paure e razzismi prima di essere accettati e divenire parte integrante delle popolazioni locali. E oggi molti nostri ex connazionali sono invece citati come esempio positivo. Vorrei ricordare agli esponenti politici che rappresentano il Nord del nostro Paese, che gran parte delle loro fabbrichette sono il frutto del duro lavoro dei loro antenati in Paesi stranieri. Prendano esempio da questa verità storica e imparino a portare rispetto a qualsiasi essere umano, sia esso africano o “terrone nostrano”. Il mondo è di tutti, bisogna solo imparare a convivere. E a quel punto le paure del diverso svaniranno per sempre, e certamente per molti sarà anche più bello vivere.
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La diseguaglianza fa male
Redistribuiamo la ricchezza per un futuro migliore
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 8 ottobre 2009
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La diseguaglianza divide il mondo degli esclusi da quello dei privilegiati: da una parte la fame, la miseria e la sofferenza, dall’altra l’abbondanza, la ricchezza e la felicità. Questa divisione non può più essere ignorata da nessuno perché l’ingiustizia che rappresenta sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’umanità. L’economia globale, così com’è strutturata, sta producendo tanto una crescita smodata della povertà quanto l’incubo dell’insicurezza verso il futuro. Per questo occorre rifondare il capitalismo, dove nuove regole impongano al capitale di avere anche una funzione sociale, evitando così tante intollerabili morti per denutrizione. E la FAO, direte voi, non dovrebbe aiutare a migliorare la vita delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita economica mondiale? L’Agenzia per l’alimentazione e l’agricoltura dell’ONU ci prova da qualche tempo ma il suo impegno non si è rivelato sufficiente a eliminare la sottoalimentazione nel mondo. Occorre una governance globale il cui scopo sia quello di trasferire anche solo una piccolissima parte dei tanti benefici del libero mercato ai Paesi che muoiono di fame. Il G20 di Londra, che ha riunito le economie più potenti del mondo, per la prima volta ha citato il principio della giustizia sociale concedendo una tenue speranza ai disperati del globo. La diseguaglianza, questa volta, non è stata raffigurata come un principio etico tanto decantato e mai realizzato, ma valutata come un nuovo tipo di crescita approvata anche dagli esclusi, per procedere verso un futuro che altrimenti non c’è. Che il futuro dipenda dalla crescita della domanda ormai lo sanno proprio tutti. Come tutti sanno che non ci sarà crescita senza redistribuzione del reddito e della ricchezza. Allora perché non cominciare a rivedere alcune regole che invece hanno portato alla crisi economica attuale e messo a repentaglio 25 milioni di posti di lavoro (proprio per il crollo della domanda globale)? Se non c’è domanda, crolla il commercio mondiale, il credito si blocca, gli investimenti si arrestano, diminuisce il Prodotto Interno Lordo delle nazioni, le famiglie s’impoveriscono e s’indebolisce la democrazia. La diseguaglianza sociale è una differenza nei privilegi, nelle risorse e nelle rimunerazioni, pertanto ingiusta e dannosa. Viviamo in un mondo dove bisogna adeguarsi ai cambiamenti. Negli ultimi cento anni ci sono stati più mutamenti che in duemila. E’ cambiato l’ambiente, l’habitat, l’uomo stesso. Le grandi invenzioni hanno trasformato l’uomo moderno in uomo tecnologico, quest’evoluzione ha portato tanta ricchezza nel mondo, che invece di essere trasformata in ricchezza sociale e servire al miglioramento della qualità della vita di tutti, come sempre si è concentrata nelle mani di pochi, determinando un’ingiusta diseguaglianza che vede da un lato pochi fortunati vivere agiatamente, dall’altro moltissimi condurre un’esistenza miserabile. Secondo l’Onu basterebbero 500 miliardi di dollari (quei dollari spesi nei primi due anni di guerra in Afganistan e in Iraq) per eliminare la fame cronica che strema più di un miliardo di persone. Combattere la miseria non vuol dire soltanto riempire stomaci vuoti, significa pure creare un mondo migliore, con più scuole, con più ospedali, con più servizi e di conseguenza meno disoccupazione, meno violenza, meno miseria. Ma soprattutto meno ingiustizia e indifferenza da parte di chi governa l’umanità.
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L’estate dei divieti
Dove non c’è la famiglia ci pensa lo Stato
- di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 8 ottobre 2009
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Che strana la nostra società. Da qualunque parte la si guardi, l’impressione è che, invece di andare avanti, verso il progresso e un futuro migliore, stia tornando indietro e si stia riappropriando delle parti peggiori del proprio passato. Rispuntano odi tribali, razzismi e guerre di religione, si lasciano morire in mezzo al mare i più disgraziati del pianeta, si picchia a sangue chi è diverso, si stuprano mogli e si violentano bambine handicappate, si fa sesso in cambio di una maglietta nuova o per un telefonino, per pochi euro si rapinano e si ammazzano anziani indifesi, la maleducazione e l’ignoranza dilagano e i nostri fi gli continuano a morire per alcol e droga. Già i nostri fi gli, il bene più prezioso che abbiamo e al quale non dedichiamo più il nostro tempo. Abbiamo smesso di osservarli e non ascoltiamo neanche più le loro paure, i loro sogni e le loro necessità. Presi quasi esclusivamente dal nostro lavoro o da chissà che cosa, quando si torna tardi a casa, spesso neanche ci s’incontra e alla fi ne arriviamo a delegare la funzione educativa alle istituzioni. Nel loro crescere “orfani” la sola cosa che conta è mettersi in evidenza, essere popolari nel gruppo e nella società. Non importa come o perché, l’importante è riuscirci. Droga, alcol e sigarette diventano simboli di appartenenza e, inevitabilmente, più conta il gruppo e meno la famiglia. Già, la famiglia. Molti genitori se provassero a osservare profondamente i propri fi gli, stenterebbero persino a riconoscerli, per quanto in realtà sono diversi da come invece vorrebbero che fossero. I nostri fi gli sembrano quei “compagni di sbronze” abilmente descritti da Charles Bukowski 30 anni fa, dove per non essere emarginati del tutto da quella società che proprio non li considera e da una famiglia troppo distratta, si stordiscono in gruppo con alcol, droga, fumo e sesso, vivendo così una vita dove non esiste altro. Allora per avere visibilità si esagera, e più si esagera più ci si mette in evidenza. Ecco perché, sempre più spesso, si passa dalle solenni sbronze al coma etilico, o peggio ancora ai decessi. L’alcol che una volta i giovani disprezzavano perché roba da “vecchi ubriaconi”, oggi è moda. Bevono tutti e la cosa più preoccupante è che si comincia sempre più giovani, addirittura intorno ai 12 anni. E sono proprio i più giovani che “per seguire la moda”, sempre più spesso affollano i centri di recupero per alcolisti o li troviamo addirittura distesi in qualche angolo della città, in fi n di vita. Negli ultimi anni in Italia sono morti decine ragazzi mentre centinaia sono finiti in ospedale per coma etilico o per overdose. Ormai a Roma, Berlino, Amburgo, Dublino (ma l’elenco è lungo…), non si va più per visitare musei o monumenti, per osservare gli usi e costumi della gente, ma per partecipare a quei tour alcolici organizzati su Internet, dove per 20 euro ti portano nei pub della città, garantendo sbornie indimenticabili da raccontare al rientro in patria. Proprio come il ragazzo trovato morto a Roma, caduto, perché ubriaco fradicio, da un ponte sul Tevere dopo aver partecipato a un tour alcolico nella capitale. Oppure i due giovani morti in due diversi rave party in Puglia, sempre dopo una sbornia colossale. Non vanno dimenticate, inoltre, tutte le stragi compiute sulle strade, sempre per colpa di alcol e droga. E dopo tutti questi casi, lo Stato si è sentito in dovere di sostituirsi ai genitori assenti, per cercare di mettere un freno a questa moda tremenda e per tutelare il futuro della Nazione. E’ da poco terminata l’estate, la prima senza alcol e sigarette per gli adolescenti. A Milano, Roma, Viareggio, Jesolo e in molte altre parti d’Italia è stata proibita la vendita degli alcolici ai minori di 16 anni, mentre sull’isola d’Elba è stata vietata la vendita delle sigarette ai giovanissimi. Le ordinanze adottate in queste città sono andate a regolare, per quanto possibile, il divertimento e a garantire allo stesso tempo la sicurezza personale e collettiva. A Milano chi somministrava alcol ai minori di 16 anni è incorso in una multa di 450 euro, la stessa recapitata a casa dei genitori, andando di fatto a sanzionare una sorta di omesso controllo da parte di chi esercita la patria potestà. A Roma, il sindaco Gianni Alemanno ha voluto punire solo gli esercenti che non hanno rispettato la legge, non i genitori, con i quali invece intende invece compiere un’opera di comune prevenzione. secondo il Ministro della Gioventù Giorgia Meloni, l’approccioscontro non paga, bisogna intervenire sul piano culturale, sostenendo le famiglie e la scuola, ma compito delle istituzioni è stare vicino alle famiglie, non sostituirsi ad esse. Secondo il parere di chi scrive, la famiglia da sola non basta, occorre che anche la scuola e le amicizie siano quelle giuste. Se l’estate dei divieti è riuscita a salvare la vita anche solo di un ragazzino e insegnato a un altro il rischio che si corre a seguire quest’assurda moda, per la prima volta ben vengano le restrizioni, con la speranza che siano superate da uno sguardo tra padre e figlio o da una tenerezza materna.
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