Flexsecurity
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Flexsecurity
Il modello Danese di sostegno all’occupazione
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno III numero 2, marzo 2010
(clicca qui per leggere questo articolo nella versione editoriale)
I nostri figli devono prendere tristemente atto che il posto fisso non esiste più. Nell’arco della loro vita cambieranno più volte datore di lavoro e di conseguenza avranno anche periodi più o meno lunghi d’inattività. Se ci soffermassimo per un attimo a riflettere su questo, e sul fatto che il 26,9% dei nostri ragazzi sotto i 25 anni è disoccupato , ci accorgeremmo che la nostra disoccupazione giovanile è la più alta dell’Unione europea, evidenziando, infi ne, che le regioni più colpite sono quelle del “povero” Sud. Lo Stato deve immediatamente cominciare a pensare come affrontare questi problemi, e prendere in considerazione una seria revisione degli ammortizzatori sociali. Rimedi e strategie strutturali e tempestivi, perché i giovani oltre a rappresentare astrattamente il futuro di ogni società, sono concretamente il patrimonio imprescindibile di ciascuna collettività, per garantire uno sviluppo sostenibile e un prezioso sostegno ai più anziani. Cosa si può fare per assicurare nelle fasi di provvisoria disoccupazione una garanzia del reddito e una formazione mirata a riconvertire questi giovani nei momenti di vuoto occupazionale? In Europa e negli Stati Uniti si sta studiando con attenzione la flexsecurity. Per i danesi è uno “strumento ideale per la garanzia della flessibilità economica e della sicurezza sociale”. In Danimarca, infatti, un impiego dura in media quattro anni: ogni danese cambia almeno cinque volte datore di lavoro nel corso della sua vita e, per questo motivo, lo Stato sociale si è dotato di una serie di norme per eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti. Ma cos’è realmente questo modello danese che garantirebbe alle imprese la flessibilità e ai lavoratori la sicurezza? In sostanza, flexsecurity vuol dire che le aziende possono licenziare quando lo ritengano opportuno, perché lo Stato garantisce la sicurezza del reddito e crea incentivi per il reinserimento in tempi brevi nel mondo del lavoro. Più propriamente, la flexsecurity consente ai cittadini danesi di ottenere un assegno di disoccupazione pari al 90% dello stipendio e per ben 4 anni. Ma nel caso in cui il beneficiario dovesse rifiutare un’occupazione dopo il primo anno di inattività, questi perderebbe il sussidio statale. Con questo sistema, solo il 5% della popolazione è disoccupata e meno del 2% lo rimane per più di due anni. Per licenziare una persona bastano cinque giorni e non occorre una giusta causa, mentre per assumere non esistono norme contrattuali nazionali o minimi salariali. Durante il periodo di disoccupazione è obbligatorio frequentare specifici corsi di formazione professionale, in modo da essere riconvertiti in altri settori del mondo lavorativo, diversi da quello di provenienza. Il socialdemocratico Urban Ahlin ha sottolineato che il sistema lavoro danese mira a salvaguardare le persone e non i posti lavoro: sarebbe inutile cercare di mantenere in vita aziende e comparti produttivi inguaribili, o peggio ancora spacciati, meglio investire nella formazione dei lavoratori per indirizzarli verso nuovi settori efficienti. Il tema più importante che l’Italia dovrà dunque affrontare nei prossimi anni è quello del welfare, soprattutto per i giovani. Il modello danese è certamente un ottimo strumento di tutela per le persone in difficoltà, ma valido in quella realtà, non da noi, dove viste le enormi differenze fra i due Paesi (numero dei disoccupati, numero degli abitanti, debito pubblico, interventi statali a favore del welfare, prelievo fi scale, sindacalizzazione e tipo di economia), alla flexsecurity bisognerebbe affiancare altri interventi, che sappiano meno di assistenzialismo e più di riorganizzazione totale del sistema lavoro. Nei prossimi anni avremo sempre più bisogno di vere professionalità, se vogliamo davvero andare incontro alle opportunità dell’avvenire. Altrimenti si continuerà a scambiare chimere per realtà.
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